Lo scorso 25 maggio si è celebrata la Giornata mondiale dell’Africa. Il pensiero del nostro Fabio Ghia in un articolo de L’Opinione delle Libertà.
Riportiamo l’articolo pubblicato su “L’Opinione delle Libertà”
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Il 25 maggio si è celebrata la Giornata mondiale dell’Africa, in ricordo della costituzione nel 1963 dell’Organizzazione per l’unità africana (oggi Unione africana). Per l’occasione il ministero degli Affari Esteri ha dedicato una mostra fotografica sul mondo africano, dichiarando nel suo insieme la cultura africana “solo geograficamente” distante dalla nostra. Il mondo degli italiani residenti all’estero, che è forse il migliore indicatore di quanto la cultura italiana sia aperta o meno ai paesi verso i quali si emigra, mostra però uno “scarso” interesse verso il Continente africano. Solo lo 0.7 per cento (34.500 unità, su un totale di più di 5 milioni e mezzo) degli emigrati italiani, infatti, ha scelto il Sudafrica, mentre in tutto il continente africano, la presenza si attesta sulle 50mila unità. Ampliando alla presenza di altre comunità estere, ci si rende conto che l’Africa intera è ben poco amata dai popoli del resto del mondo! La ragione di questo evidente disamore per l’Africa, trova riscontro nei grandi e gravi problemi che ancora affliggono il continente africano.
La diffusissima povertà, l’esclusione sociale, la diffusa delinquenza, accompagnate da una urbanizzazione scellerata e la mancanza di serie politiche sociali, rendono la stragrande maggioranza delle nazioni africane poco appetibili. Il solo aumento demografico registrato nell’intero continente negli ultimo 70 anni è impressionante: dai 200 milioni di popolazione degli anni ‘50, l’Africa è passata a più di 1 miliardo e 300 milioni di persone dei giorni d’oggi. Inoltre, l’urbanizzazione delle principali capitali nazionali, ha portato a un accentramento urbano del più del 60 per cento della popolazione. Nella sostanza si è passati da una tradizionale Africa ancestrale a un dinamico richiamo verso il più sfrenato modernismo, con lo spostamento di masse enormi dalla “Savana” dei grandi spazi interni, a megalopoli dove solo il vivere nel degrado più assoluto delle baraccopoli (Lagos, Nigeria: 22 milioni di popolazione e degrado educativo) rappresenta la soluzione di una convivenza urbana sempre meno sopportata a livello giovanile. A questa realtà va aggiunta la “cultura politica” di fondo che si è venuta a generare sui “flussi migratori interni” (l’Africa ne conta per più di 20 milioni di persone). In molti Paesi la retorica anti-migrante è divenuta la “causa” principale del peggioramento dello stato sociale. A questo si è aggiunto il fattore “terrorismo”, che ha coinvolto l’insieme delle nazioni del Sahel africano, inglobandolo spesso nelle tematiche sui flussi migratori.
La Libia ne è l’esempio finale. Terra che per noi europei è divenuta il simbolo della emigrazione africana verso l’Italia, dei “migranti” ne ha parlato, in modo molto più appropriato, Filippo Grandi (l’Alto Commissario Un per i Rifugiati-Unhcr): “L’insicurezza e l’assenza di un’autorità statale centrale ha permesso alla Libia di diventare il principale paese di transito e di partenza per rifugiati e migranti (stimati più di quattrocentomila!) che cercano di raggiungere l’Europa nella loro fuga da persecuzioni, conflitti e violenze, privazioni e ricatti. Ma effettivamente, dalla Libia i migranti non cercano altro che fuggire!” A questo assordante e disperato grido di “aiuto” l’Europa (in particolare l’Italia) ha fatto letteralmente “orecchi da mercante”, anzi peggio! È di ieri la notizia che sulla costa occidentale della Sicilia sono sbarcati un centinaio di “migranti”, provenienti dalla Tunisia. Il sistema è conosciuto: basta pagare dai 300 ai 400 euro a persona e il “peschereccio” di turno prende a rimorchio i piccoli natanti dalle acque interne tunisine, trasferendoli sino a due, tre miglia dalla costa italiana. I prezzi del trasbordo sono crollati enormemente dagli iniziali due, tremila euro, grazie alla politica “rigorista” fortemente attuata dalle cancellerie consolari europee (Italia in testa!).
Per l’intera Africa infatti, per avere un visto per un paese Schengen, bisogna essere in possesso di: età superiore ai 28 anni, lavoro assicurato e un minimo di “due anni” di contributi assistenziali pagati, albergo prenotato per l’intero periodo di soggiorno, assicurazione, conto di garanzia in banca di almeno 20mila dinari, viaggio aereo, lettera di invito e tante altre quisquiglie. Altrettanto chiaro mi appare dunque come la “delinquenza organizzata africana” sia entrata in regime concorrenziale con i prezzi fatti dai consolati, tenuto conto anche del fatto che il visto regolare viene negato al 99 per cento dei casi. Fortunatamente, però, il Continente africano mostra segnali di emancipazione di cultura politica, ma anche nel settore economico-sociale. La crescita delle classi medie, insieme alla spinta a rafforzare le organizzazioni regionali, sono divenute di importanza strategica per l’Unione africana (Ua) per una agenda di politiche economiche coniugate e comuni, su cui inserire i partner economici esteri.
I tradizionali partner della Ua: Usa, Francia, Olanda e, ovviamente Ue con l’accordo di Cotonou del 2000, hanno instaurato, attraverso il Fondo Europeo di Sviluppo, il canale principale della cooperazione allo sviluppo tuttora operativo. Quasi contemporaneamente nel 2000, con la nascita del Forum per la cooperazione Cina-Africa (Focac) la Cina si è inserita in molti settori della cooperazione, divenendo in pochi anni il primo partner commerciale, ma soprattutto il maggiori finanziatori di progetti infrastrutturali del continente africano. Esiste chiaramente una differente impostazione del partenariato. Se gli investitori occidentali, infatti, hanno quasi sempre subordinato gli aiuti e la cooperazione con l’Africa al rispetto dei “diritti umani”, i cinesi hanno optato per la non ingerenza negli affari interni dei propri partner. I loro aiuti finanziari e le forniture militari sono ancorati a una sorta di “acquisizione della gestione attuativa” in caso di non soddisfacimento delle clausole finanziarie.
Sulla base di questo principio, la Cina ha proposto due anni fa una sorta di unione tra la propria iniziativa: “One Belt One Road”, l’Agenda 2023 dell’Unione africana, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2030 delle Nazioni Unite e i piani di sviluppo dei Paesi africani. Secondo le stime cinesi, questo agglomerato di progetti ed obiettivi porterà opportunità di sviluppo senza precedenti ai paesi africani, rafforzando il loro processo di industrializzazione e modernizzazione. All’Europa non resta altro, dunque, che suggerire una certa priorità alla costruzione di un mercato interno comune che potrebbe essere d’ispirazione per entrambe le odierne Aree di libero scambio sia in Africa sia in Ue. Con un prioritario argomento da riesaminare: la libera circolazione dei popoli; avendo come riferimento ciò che era l’Unione europea prima e quanto è divenuta dopo Shengen con l’avvento della generalizzata “cittadinanza Ue”!